La Nato non sarà mai più quella di prima
"Forse sarà il caso che, dopo la rotta di Kabul, l’Italia dedichi un'attenzione più vigile, meno rituale, magari anche più fantasiosa, alla sua politica estera. Mettendo in conto che essa ormai possa riservarci più sorprese che conferme. Infatti l’ammainabandiera americano in Afganistan sembra quasi dirci che la Nato non esiste più. O almeno, non sarà mai più quella di prima.
A vent’anni dall’11 settembre del 2001, quando proclamavamo con una certa commozione di essere diventati “tutti americani”, si può dire che forse è l’America a non essere più sé stessa. In spregio alla retorica atlantica il ritiro dall'Afganistan è avvenuto infatti sotto il segno dell’unilateralismo a stelle e strisce. Non proprio un fulmine a ciel sereno, se si tiene conto delle vicissitudini di tutti questi anni. Prima Bush (figlio) e la seconda guerra in Iraq. Poi Obama, rivolto più al “suo” occidente che al “nostro". Poi Trump con il suo culto fin troppo essenziale dell’”America first”. Uno scivolamento dopo l’altro che si pensava di poter correggere, ma che il pasticcio afgano rende a questo punto altamente drammatico. E infatti l’illusione che Biden potesse riesumare i fasti della politica euro-atlantica degli anni quaranta del secolo scorso è durata appena poche settimane. Passate le quali s’è dovuto prendere atto che sono gli Stati Uniti, tutti gli Stati Uniti, ad aver cambiato strategia. Quale che sia il presidente di turno.
Si dirà che non è certo la prima volta che si incrociano i ferri nell'ambito dell’alleanza atlantica. E’ vero. Ma è vero anche che tutti i conflitti, le divergenze, le controversie del passato si svolgevano all’interno di un recinto strategico che nessuno metteva mai seriamente in discussione. Quasi che la Nato fosse in un certo senso la nostra coperta di Linus: una comunità di destino a cui nessuna delle parti si sarebbe mai sottratta. A suo tempo si litigò su Suez, energicamente. Poi sul Vietnam, drammaticamente. E poi con qualche asprezza in più appunto sulla seconda guerra in Iraq, con mezza Europa a favore e mezza contro. Cominciò di lì la retorica sull’America che veniva da Marte e l’Europa che invece si ispirava a Venere -gli uni più bellicosi e gli altri più inclini al pacifismo. Ora invece a quanto pare lo scenario sembra essersi capovolto, con gli Stati Uniti che lasciano il campo di battaglia mentre alcuni europei (tra cui l’Italia) sconsigliavano di fare i bagagli in fretta e furia.
I paragoni un po’ consolatori a cui siamo soliti fare ricorso non aiutano più di tanto. In questi giorni si è molto ricordato il precedente del Vietnam, quando l’ultimo elicottero si levò in volo dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon, portando in salvo l’ambasciatore e i suoi cari e chiudendo un conflitto che aveva lacerato le coscienze dell’epoca. Fu, anche quello, un ripiegamento che annunciava una sconfitta e un drammatico passaggio di consegne. Ma quella volta tutto era avvenuto appunto, per così dire, ben dentro la cornice atlantica. La comunità occidentale, chiamiamola così, si era espressa, divisa e contrastata, ma senza che nessuno ne mettesse mai seriamente in questione il destino. Era una guerra “ americana” a cui gli alleati non avevano preso parte. Ma a tutti era chiaro che il suo esito avrebbe riguardato l’intero arco di quell’alleanza: favorevoli e contrari, combattenti e dissidenti, tutti accomunati da uno stesso legame.
Ora invece è proprio quel legame che viene messo in forse. Non tanto perché si possano aver coltivato opinioni e interessi diversi, come è naturale che sia. Ma perché forse per la prima volta ci si è resi conto che il peso di quelle diversità è diventato forse addirittura maggiore delle tante affinità che pure restano. La retorica dell’”America first” e la contabilità degli interessi più immediati e controversi mette infatti all’ordine del giorno una divergenza che la diplomazia reciproca non riesce più a mascherare. E tutto questo all’ombra di una sconfitta che sembra avere in sé qualcosa di apocalittico. Non fosse altro per il senso di vergogna che lascia addosso un po’ a tutti.
Così, quanti lamentavano fino a pochi anni fa gli eccessi “ imperialisti” di un certo unilateralismo americano si trovano oggi a fare i conti con il suo rovesciamento. E cioè con l’egoismo di un’America quasi isolazionista. Se prima ci sentivamo schiacciati (ma anche strategicamente tutelati) dalla sua ingombrante presenza, oggi ci troviamo alla mercé della sua assenza. Quantomeno nei teatri strategici che ci riguardano più da vicino.
Nel bene e nel male, e molto più nel male che nel bene, ora siamo più soli. Sarà il caso di farsene una ragione e di capire quali rimedi possano mettere in campo, l’Italia e l’Europa. Il tempo delle formule di rito purtroppo è finito. Si dirà che siamo e restiamo un paese atlantico, certo. Ma il guscio del vecchio atlantismo che ci avvolgeva e ci proteggeva si è rotto. Occorrerà dunque trovare altri modi di essere “ atlantici”, ora che quello che conoscevamo e praticavamo sembra essere tramontato tra le colline dell’Afganistan e le anse del Potomac. E sarà bene cercare di farlo al più presto".
(di Marco Follini)