Sono 13 i punti del genoma umano fortemente associati al rischio di infezione da Coronavirus o alla gravità del Covid. Lo afferma uno dei più grandi studi di associazione sull'intero genoma Covid, pubblicato oggi sulla rivista 'Nature': coinvolti quasi 50mila pazienti Covid, 2 milioni di controlli su cittadini non infetti, oltre 3.500 ricercatori per 61 sotto-studi provenienti da 25 Paesi.
Nel marzo del 2020, mentre la letalità del virus Sars-CoV-2 in Italia è straordinariamente più alta che altrove, i medici si accorgono che non tutte le persone si ammalano con la stessa gravità. Da qui una domanda: quali fattori genetici influenzano lo sviluppo di una malattia grave o letale, piuttosto che di sintomi lievi o del tutto assenti? Ad aprile 2020, 4 ricercatori Humanitas pubblicano in open access uno dei primi studi sulla genetica di Covid-19, lavoro presto approfondito grazie ad un consorzio tra Italia, Spagna, Germania e Norvegia. Come loro, tanti scienziati nel mondo iniziano a cercare nei geni una risposta al quesito clinico.
Lo studio pubblicato oggi racchiude anche quei primi sforzi. Questo grande impegno globale, 'Covid-19 Host Genomics Initiative', ha permesso di individuare 13 loci, o posizioni nel genoma umano, che sono fortemente associati al rischio di infezione da Sars-CoV-2 o alla gravità della malattia. I risultati potrebbero aiutare a identificare target per future terapie e dimostrare l'utilità degli studi genetici nella comprensione delle malattie infettive.
La 'Covid-19 Host Genomics Initiative' è stata fondata nel marzo 2020 da Andrea Ganna, group leader presso l'Institute for Molecular Medicine Finland (Fimm) dell'Università di Helsinki, e da Mark Daly, direttore di Fimm e membro del Broad Institute del Mit e di Harvard di Boston, Massachusetts. L'iniziativa è diventata una delle più estese collaborazioni nel campo della genetica umana. Nell'area milanese, oltre a Humanitas hanno partecipato l'Università degli Studi di Milano e l'Università degli studi di Milano-Bicocca, che collaborano a un progetto chiamato Genius (Genetics Against Coronavirus), sostenuto anche da una donazione di Intesa Sanpaolo.
"Abbiamo avuto molto più successo rispetto a esperienze passate nel comprendere il ruolo della diversità genetica perché abbiamo partecipato ad uno sforzo concertato per raggiungere le popolazioni di tutto il mondo", afferma Stefano Duga, ricercatore di Humanitas e docente di Biologia molecolare di Humanitas University. "Il lavoro da fare è ancora molto, ma siamo sulla strada giusta per comprendere meglio questa malattia", aggiunge.
Dei 13 loci identificati finora dal team del consorzio globale - descrive una nota - due avevano frequenze più elevate tra i pazienti dell'Asia orientale o dell'Asia meridionale rispetto a quelli di origine europea. Uno di questi due loci, in particolare, è vicino al gene Foxp4, che è collegato al cancro del polmone. La variante Foxp4 associata a forme clinicamente gravi di Covid-19 aumenta l'espressione del gene, suggerendo che l'inibizione del gene potrebbe essere una potenziale strategia terapeutica. Questo sottolinea l'importanza di analizzare campioni provenienti da popolazioni con background genetico diverso. Altri loci associati a Covid-19 grave includono Dpp9, un gene coinvolto anche nel cancro del polmone e nella fibrosi polmonare, e Tyk2, che è implicato in alcune malattie autoimmuni.
Sebbene i vaccini conferiscano protezione contro l'infezione, c'è ancora un notevole margine di miglioramento nel trattamento del Covid-19, che può avvalersi dei risultati delle analisi genetiche.
"Meglio riusciamo a curare il Covid-19, più la comunità medica saprà gestire la malattia e il suo impatto sulla società - evidenzia conclude Rosanna Asselta di Humanitas - A questo scopo, il consorzio globale ha reso immediatamente disponibili alla comunità scientifica i dati raccolti, in modo da accelerare il più possibile le ricerche da parte di altri scienziati. L'obiettivo è scoprire strategie terapeutiche che consentano, grazie al contributo della genetica nel comprendere i meccanismi molecolari della malattia, di utilizzare farmaci già esistenti (il cosiddetto 'drug repurposing') che potrebbero portare rapidamente a nuove terapie".